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Solennità di San Giuseppe a Roccapalumba

Aggiunto da Caterina Doddis

Roccapalumba (PA)
  • Prezzo: Festa
  • 091.8215523
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“Viva lu patri di la Pruvudienzia”, solennità tributata a San Giuseppe secondo l’antica tradizione di ROCCAPALUMBA (Palermo). San Giuseppe è uno dei santi più venerati in Sicilia ed è per tale ragione infatti che viene spesso acclamato patrono e protettore in molte località. La devozione e il culto al santo sono attestati già dai primi secoli del cristianesimo attraverso la trasmissione di una serie di leggende e testimonianze riportate nei vangeli apocrifi, mentre il culto pubblico e liturgico nell’ambito della chiesa cattolica fiorisce a partire dai secoli XIV e XV.A Roccapalumba la tradizione si perde nella notte dei tempi. La festività di San Giuseppe viene celebrata il 18 e il 19 marzo, in coincidenza con l’equinozio di primavera, ragion per cui tale ricorrenza assimila alcuni riti di più antica tradizione. E’ ormai notorio che il Cristianesimo si è appropriato della ritualità e dei culti arcaici rielaborandoli secondo le proprie strategie di evangelizzazione e di proselitismo. Si tratta nella fattispecie, di culti ancestrali che venivano celebrati per ristabilire l’unione spirituale tra l’uomo e la natura nel momento in cui essa rinasceva e si rinnovava. I riti propiziatori in onore degli dei pagani si sono cosi tramandati fino ai nostri giorni e sono diventati parte integrante del nostro bagaglio religioso-culturale.Nella tradizione roccapalumbese, la solennità in onore del Santo Patriarca, include molti elementi arcaici quali il rito del fuoco o della luce e il banchetto sacro. Nei giorni precedenti la festività, la comunità è in fermento per i preparativi: i ragazzi alcuni mesi prima si adoperano per la raccolta della legna che la sera della vigilia verrà accatastata nelle piazze e nei crocicchi per essere poi bruciata al passaggio della processione del preziososimulacro di Gesù Bambino. I nonni invece o i papà si recano nelle campagne per la raccolta degli steli di ampelodesmo (ddisa) necessari per la realizzazione delle tradizionali “fanare”, sorta di lunghe torce che i bambini portano accese in processione la notte della vigilia in occasione della processione di Gesù Bambino. E’ un’atmosfera surreale: i bagliori delle “fanare”, la luce intensa ed il calore dei falò, i ritmi incalzanti delle marce musicali, lo scintillio dei monili d’oro del paffuto Pargoletto che da tempo immemore è il termine di paragone per indicare la bellezza infantile, sono gli elementi che da secoli concorrono periodicamente, alla manifestazione del sacro attraverso gesti e ritualità immutabili e condivisi, è il trionfo del fuoco e della luce, segni di rinascita universale, il ritorno alla fertilità della terra e l’uomo ritrova la propria armonia con la natura.

Fino agli anni ’70 del secolo scorso, il 18 marzo, nelle prime ore pomeridiane, il frastuono di un tamburo, per le strade del paese, annunciava “a cugghiuta d’a cira”. Questo cerimoniale, esclusivo per questa solennità, invitava a raccolta tutti i fedeli che per grazia ricevuta avevano deciso di offrire al Santo “a cira” (candele, ceri votivi, ex voto di cera) segno tangibile per la comunità della sua benevolenza. Il tamburino gridava ad alta voce: “Cu avi prummisioni a San Giusieppi…” (“Chi ha fatto voto a San Giuseppe…”). La gente usciva per strada recando con sè candele, ceri votivi, ex voto in genere, ed in corteo raggiungeva la chiesa Madre per depositare tutto sull’altare del Santo. Un cerimoniale antico, denso di pathos e di afflato emotivo che è auspicabile ripristinare per il recupero della memoria storica, del sentimento e della sensibilità religiosa, un momento di grande fede, di devozione e di “Pietas” popolare in cui tradizione e religione si compenetrano e rimarcano l’appartenenza della comunità. Per i roccapalumbesi, San Giuseppe è il “Patriarca” ed il “Patri di la Pruvudienzia” (Padre della Provvidenza Divina), poiché oltre ad essere il protettore degli orfani e delle ragazze nubili, protegge soprattutto i poveri; ed è per tale motivo che spesso, chi si rivolge al Santo per impetrare grazie e favori, si impegna a sciogliere il voto, curando e finanziando l’allestimento, nella propria abitazione, della tradizionale “Tavulata” (grande tavola sacra imbandita), il banchetto sacro, appunto, offerto a lui in primis e poi ai bisognosi del quartiere e agli orfani, chiamati, nell’accezione dialettale “Virginieddi”. Tra costoro un posto di rilievo viene dato ai personaggi della Sacra Famiglia, scelti anche tra le persone meno abbienti. Queste grandi tavole, allestite nella stanza più bella della casa, vengono ricoperte con bianche tovaglie impreziosite da splendidi e preziosi ricami, mentre l’altare che sovrasta la tavola, è adorno di candide coperte tessute al telaio, rami di palma, fiori di campo, ceri, spighe e festoni di alloro, di rosmarino con limoni, arance e cedri. Alto e solenne è il momento della preparazione delle pietanze e dell’allestimento, secondo un antico rituale, in cui ruolo fondamentale viene rivestito dalla padrona di casa, l’unica che ha instaurato il rapporto con il Santo al momento del voto. Familiari, parenti amici, vicini di casa, in genere si danno appuntamento, alcuni giorni prima, in casa del devoto ed insieme pianificano ogni attività.

L’immagine che si presenta al visitatore è quella di un microcosmo perfetto e produttivo dove ogni componente espleta il proprio ruolo in sinergia con quello degli altri. L’iter dei preparativi viene scandito da litanie e preghiere in dialetto e le prime cose che vengono poste sulla tavola sono le brocche con acqua e vino rosso, dopo aver solennemente poggiato sull’altare l’immagine del Santo, raffigurato, secondo l’antica tradizione iconografia, in atteggiamento amorevole e in età senile, tenendo fra le braccia Gesù Bambino oppure l’immagine della Sacra Famiglia. Sulla “Tavulata” vengono collocati anche i simboli dell’abbondanza e, come nelle feste di origine agricola, assumono valore propiziatorio per il raccolto; tra tutti, il pane votivo che si presenta in varie forme ed assurge al livello di opera d’arte; il Pitrè, antropologo e studioso di tradizioni popolari, infatti afferma che:” trattandosi di un omaggio al Padre della Provvidenza, tutto dev’esser grande e spettacoloso, e il pane dà la misura della provvidenza della giornata”. Da tempo immemore, spetta alle donne, la prerogativa di confezionare il pane votivo, secondo un antico procedimento che richiede abilità, esperienza e precisione. L’attrezzo usato per l’impasto è denominato “u scanaturi”, sorta di grande madia di legno, dotata all’estremità di una lunga e poderosa asta denominata “sbria” atta a pressare l’impasto, in modo da renderlo duro e compatto per facilitare la lavorazione artistica. “U pani scanàtu”, appunto viene denominato il pane prodotto con questo antico attrezzo. Esso, in seguito a tale procedimento, assume forme specifiche dettate dalla tradizione, secondo la simbologia iconografica attribuita al Santo, alla Madonna ed a Gesù: ecco quindi campeggiare sull’altare che domina la “Tavolata”, i grandi pani (il peso equivale a un chilogrammo) dalle molteplici forme: “varba” “vastuni” “ucciddatu” “cuddura” “manuzza” “parma”, l’ostensorio, le spighe, gli strumenti del falegname.

Ogni tavola imbandita diventa, dunque l’allegoria della Provvidenza divina, del creato, del Paradiso terrestre. Ma oltre alla presenza del pane, altro elemento propiziatorio è rappresentato dai “laureddi”, germogli di grano dal colore verde intenso, adornati da nastri variopinti, che vengono sù dai chicchi messi a dimora nella bambagia umida per quaranta giorni. Coesistono anche i simboli religiosi di origine biblica: il cedro che è presente nella festa ebraica dei “Tabernacoli” e che ricorda la permanenza nel deserto del popolo di Israele nel viaggio verso la terra promessa; la lattuga, ortaggio amaro, simbolo della Pasqua ebraica; il finocchio nelle manifestazioni religiose antiche riallaccia la simbologia all’idea di rinascita, di rigenerazione spirituale; l’arancia è simbolo di felicità, prosperità ed abbondanza. La sua forma sferica si collega alla simbologia del cerchio, l’archetipo del centro da cui tutto può espandersi e crescere. Il cerchio è il simbolo della perfezione, della completezza alla stessa stregua della sfera di cui ogni punto partecipa dello sviluppo del tutto. E’ un tripudio di colori, odori e sensazioni ed il carosello delle diverse pietanze attinge alla tradizione gastronomica locale: fritture di verdure, zuppa di ceci, di fagioli, “u maccu” (zuppa di lenticchie e fave secche), asparagi con uova fritte, i carciofi alla “viddaniedda, abbuttunati, a mitati, ammuddicati, fritti”, i cardi in pastella, le melanzane “a parmisciana”, abbuttunati, fritti”, la “frittiedda” (fave verdi tenerissime con soffrittodi aglio e cipolla), la “caponata”, le sarde “allinguati, a beccaficu”, le acciughe sott’olio, il broccolo in pastella e “affucatu”, il cavolfiore lesso con olio e limone, polpette di finocchietti, di acciughe, di pane raffermo, di ricotta e uova, la zucca centenaria a fette infarinata e fritta, ogni tipologia di formaggi locali; vi è anche un grande assortimento di dolci tipici quali la cassata siciliana, i dolci a base di mandorle tostate (cubbaita, passavolanti), frittelle, “cuddurieddi, chiaccchiari, sfinci,”panuzza di ciena”, le pecorelle di “pasta reale”, i cannoli con crema di ricotta e canditi, ed altro ancora a cui fanno da cornice splendidi e magnifici festoni di rami di alloro, agrumi e rosmarino. L’unico alimento bandito è la carne, in quanto è simbolo dell’opulenza dei ricchi e contrasta dunque con l’immagine che la tradizione ci dà della povertà della  Famiglia di Nazareth.

Tutto il cibo benedetto e dunque consacrato, è, come si è detto, un dono, frutto della benevolenza della divinità nei confronti delle fatiche dell’uomo e in segno di gratitudine tutte le pietanze vengono consumate per intero in comunione con gli altri, nel giorno stesso della festa. E’ l’occasione in cui la comunità si riappropria della propria identità storica e culturale e rinsalda i vincoli sociali e parentali. L’evento coinvolge l’intero nucleo familiare, la sfera delle amicizie, dei conoscenti e del vicinato. Spesso alcune famiglie rimangono legati per sempre al Santo ed ogni anno rinnovavano il voto con l’offerta del sacro banchetto nella propria casa e secondo un’antica usanza elemosinano tutto quanto serve per la preparazione della “Tavolata” visitando casa per casa: è una sorta di umiliazione, un rito penitenziale e probabilmente di purificazione che assicurerà al devoto l’accoglimento della propria offerta da parte del Santo.

A Roccapalumba, le “tavulati” assumono diverse denominazioni secondo il numero dei “Virgineddi” ospiti e sempre in numero dispari. All’interno di questa gerarchia, un ruolo di preminenza viene rivestito dalla “Tavulata di tridici virginieddi” o “Tavulata granni” la più ricca, la più bella, la più fastosa e come la tradizione suggerisce, il giorno 19 marzo, ospita sul grande altare, il seicentesco e prezioso simulacro di Gesù Bambino che viene portato in corteo dai confrati, dal clero, dal popolo e dalla banda musicale. Altro momento essenziale della festa ha luogo per le strade del centro nella prima mattinata del 19 marzo: tre personaggi in abiti d’epoca, nel ruolo di Gesù, Giuseppe e Maria seguono il percorso processionale accompagnati dalle note festanti della banda musicale cittadina. Adulti e bambini gioiscono per questo momento di sacralità in cui il divino è ancora più tangibile: si compie il sacro percorso alla presenza dei Santi. E poi a conclusione del tragitto ci si ritrova nel luogo della “Tavolata Maggiore” per assistere all’ingresso dei personaggi della Sacra Famiglia, ospiti principali del banchetto. Momento di emozione e tenerezza collettiva che rievoca in forme meno angoscianti la vicenda della “Fuga in Egitto”: i Santi non trovano subito ospitalità, tre volte devono aggirare l’isolato pertinente all’abitazione del devoto, chiedendo di entrare; San Giuseppe bussa per primo alla porta. Dall’interno una voce di donna chiede di conoscere l’identità: “cu iè?” (“chi è alla porta?”), il Santo risponde: “Gesù, Giusieppi e Mariè” e di contro la voce dall’interno sbrigativamente annuncia: ”Nun c’iè abbiergu, nun c’iè lucanna, pruvidìtivi a n’autra banna!” (questo non è né un albergo né una locanda, cercate altrove!). Anche Maria fa un ulteriore tentativo ma invano. La terza volta è Gesù Bambino stesso che interviene ed a quel punto si aprono le porte tra gli applausi, le sinfonie dei musicisti e la commozione generale. In questa medesima abitazione, poco prima del pranzo sacro, viene condotto il prezioso simulacro seicentesco di Gesù Bambino e viene posto sull’altare della tavola. In un’altra stanza i “Virginieddi” e la Sacra Famiglia consumeranno il pasto della festa costituito essenzialmente da bucatini con sarde fresche, finocchietti e pomodoro ed una spolverata di pan grattato tostato, lenticchie, fritture di ortaggi e verdure, dolci tipici. Nessuna pietanza viene però momentaneamente prelevata dalla “Tavulata”; essa deve restare integra fino alla conclusione della festa. Infatti, lo stesso giorno subito dopo la processione in onore del Santo, il cibo viene distribuito agli astanti ed anche ai turisti che per l’occasione giungono numerosi nella nostra cittadina anche in concomitanza con “La giornata internazionale dei planetari” che ha luogo ogni anno la domenica precedente l’equinozio di primavera: una grande opportunità per tutti gli astrofili, scolaresche, camperisti, gruppi di anziani e visitatori in genere a cui è data la possibilità di accedere gratuitamente all’ingresso del Planetario “M. Saita” e dell’Osservatorio astronomico, che insieme all’Elioscopio e all’ Elioplanetografo costituiscono il Parco astronomico di Roccapalumba, ecco perché l’appellativo “Paese delle Stelle”.

In serata ha luogo la solenne processione del seicentesco simulacro di San Giuseppe con il Bambinocollocato sopra un artistico fercolo, opera di maestranze locali. Tutto il popolo si raccoglie così in preghiera intorno al Santo, durante l’intero percorso, e molti fedeli vi partecipano a piedi scalzi in segno di ringraziamento per i favori ottenuti. Le marce sinfoniche della banda si alternano ai cori che intonano le antiche litanie e rosari in dialetto. Seguono le Autorità civili e religiose. Alla guida del fercolo sono preposti i membri della confraternita omonima ciascuno nella propria livrea di color giallo ocra su cui campeggia un candido giglio. Disposti su due file parallele, recano in mano un grosso cero acceso dove è inserito il caratteristico “Cuoppu”, un cilindro di latta traforata che serve a preservare la fiamma. Al centro il gonfaloniere e gli stendardieri. Di tanto in tanto una campanella indica al corteo di fermarsi per raccogliere le copiose offerte dei devoti. Le altre confraternite seguono con le rispettive insegne in ordine di anzianità. All’arrivo del corteo in chiesa, il Santo viene salutato con il tradizionale spettacolo pirotecnico. Da diversi anni l’Ufficio turistico comunale coadiuva i confrati di San Giuseppe, preposti all’organizzazione della solennità, mettendo a disposizione gli accompagnatori turistici per i gruppi organizzati, curando la logistica ma soprattutto con l’intensa attività di promozione. La festa di San Giuseppe dunque non è solo la festa del pane, del raccolto e del risveglio della natura, è soprattutto la festa della famiglia, in cui attraverso la preparazione del pranzo votivo i fedeli ritualizzano un momento quotidiano fondamentale della tradizione e della cultura contadina.

 

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